Sunday, May 29, 2011

Philip Roth, Il Seno, recensione del racconto

Chi troppo studia, matto diventa.

Era la comoda scusa che da ragazzi ci permetteva di chiudere i libri per volare, la sera o il fine settimana, verso la sala da ballo o il campo di gioco. Il mondo felice degli istinti. E potrebbe anche essere, questo antico proverbio, un motto sul frontespizio del racconto di Philip Roth che si intitola "Il seno"

Protagonista un professore di letteratura - letteratura comparata, per la precisione - che un brutto giorno si trasforma in una mammella. Un'enorme palla ovale di un metro e ottanta, senza occhi, né braccia o gambe, e solamente una sorta di piega, come un ombelico, nella parte alta del corpo, da cui esce una linguetta che gli permette di parlare.
Se si tratti di un sogno, di un incubo o di un prodigio, lo può decidere solo il lettore. Di certo il professor Kepesh - questo, il suo nome - si trova in un letto d'ospedale più o meno nella condizione del protagonista ferito e mutilato di «E Johnny prese il fucile», il romanzo di Dalton Trumbo (1939) sulla Prima guerra mondiale da cui fu tratto un famoso film nel 1971. Che è pure, guarda caso, l'anno in cui Roth ambienta il suo racconto. C'era ancora il Vietnam, e il '68 - con i suoi appelli a fare l'amore e non la guerra - fu il fomite, insieme alla concomitante "pillola" (1965), della cosiddetta rivoluzione sessuale. Un periodo in cui fiorirono i dialoghi dei massimi sistemi sulla topografia erotica dell'uomo e della donna, che non è detto - si disse - debba essere quella tendenzialmente solo genitale del maschio.
Ricordo di avere sentito parlare allora per la prima volta di "polymorphous perversion", e quando mi fu spiegato che si trattava di una locuzione clinica del pur vituperato (dalle femministe) dottor Freud, pensai alla profezia di un ritorno orgiastico ai fasti della prima infanzia. Era anche imminente l'Età dell'Acquario. Della pace universale ed espansione della coscienza. Insomma, una illuminazione interiore, diffusa e non focalizzata, simile - se permettete devo tornare a parlare di sesso - agli effetti di un orgasmo femminile. Forse non si poteva fare altro che fingere di capire, ma era quello il clima.
E Roth deve avere pensato di mostrare la propria buona volontà prendendo in considerazione il punto di vista dell'altro sesso. Inventò il personaggio del professor Kepesh e gli fece vivere la grottesca avventura della sua "senificazione". Che è, a ben vedere, uno scherzo, ma solo in parte. Così come non lo sono «La metamorfosi» di Kafka e «Il naso» di Gogol', che Kepesh ha insegnato per troppi anni e che forse hanno contribuito a fargli dar di volta il cervello. Forse però Kepesh non è pazzo, come in fondo spera. Forse è davvero diventato "quella cosa" e le sue reazioni sono le comprensibili reazioni di chi scopre una malattia o un irreversibile sconvolgimento nel proprio corpo. Se così fosse, ci sarebbe davvero poco da ridere.

E tuttavia, come non accorgersi che anche dopo la trasformazione in un organo sessuale femminile il pensiero ricorrente di Kepesh - alter ego di quel maschilista impenitente che è sempre stato Philip Roth - è di natura tale da rendere vana ogni speranza di una sua redenzione? Non contento di provare piacere sentendosi massaggiare, Kepesh - diventato altro-da-sé, cioè una mammella - anela a penetrare con il proprio capezzolo tutte le donne che si avvicinano al letto, e per riuscirci arriva persino a offrire dei soldi…
Ma proprio quando uno pensa di essere davanti a una farsa, ecco che il letterato di classe conclude questa miserevole storia citando una poesia di Rainer Maria Rilke sul Torso arcaico di Apollo del Louvre, e rimette tutto in gioco.

“Devi cambiare la tua vita”

 di Luigi Sampietro

 “Devi cambiare la tua vita”
Il motto rilkiano non invita a conoscersi ma a mutare, ascendendo oltre la conoscenza di se stessi.
Questa è l’esperienza del poeta dinanzi al frammento di Torso del Louvre, irraggiamento di senso capace di riaccendere la pista estatica dell’estetica tramite un’elevazione sensibile. L’osservazione dell’opera d’arte è come un esercizio che incita all’allenamento visivo per percepire l’ethos della forma e, tramite questa, invocare un cambiamento nello spettatore.
Il Torso rappresenta una porzione di busto che però è un corpo-pieno, dischiuso in un’aura avvolgente di complessità che è più della somma delle sue parti mutile, quasi portatrice di un eccesso di senso grazie all’incompiutezza del corpo raffigurato. Rilke si innesta in quell’eccesso sbozzato, gli dà voce. Adesso il Torso parla, irraggia la completezza dell’esperienza estetica che si “aggiunge” al proprio osservatore con una mossa di naturale autorità. Questo momento estatico è il primo step delle esercitazioni ascetiche invocate dall’esperienza dell’arte. La piega etica verso l’auto-superamento attraverso l’arte (e la grecità arcaica) è la cifra del moderno di cui si fanno cantori innanzitutto Nietzsche e più oltre Rilke. In questi primi, decisivi passaggi della modernità la pietra antica di Apollo parla e con essa tutta l’antica sapienza greca innalzata dall’arte per vincere la sua sfida ontologica ed etica contro la religione in virtù di un’ascesi integralmente sensibile.

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